Richiamandosi al precetto “non uccidere” e alla dottrina sulla sofferenza, intesa come strumento di redenzione e partecipazione del cristiano sofferente alla passione di Gesù, la morale cattolica vieta a chiunque di compiere un gesto omicida su se stesso (suicidio) o sugli altri (omicidio)e riprova ogni legislazione che lo acconsenta.

In questa riflessione rientra anche l’eutanasia. Eutanasia significa, alla lettera, la buona morte e definisce, oggi, un intervento medico teso ad eliminare le ultime sofferenze di chi si trova in situazioni di malattie incurabili. Questo intervento può essere buono o cattivo. E’ buono quando tende ad alleviare realmente le sofferenze del malato terminale, moralmente assimilabile all’omicidio quando provoca la morte del paziente. Allo stesso tempo, la morale cristiana condanna l’accanimentoterapeutico, che è lo sforzo di mantenere in vita a tutti i costi chi è ormai in una situazione irrimediabile.

La fede cristiana chiama a servire colui che soffre con amore, impegnandosi, per quanto possibile, ad alleviarne le sofferenze e accompagnandolo, nella carità e nella speranza, verso la vita eterna.

 

Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.

Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere. (Catechismo della Chiesa cattolica, 2277)