“La canonica era piena di rifugiati che don Marchioni aveva generosamente accolto in casa sua. Forse ne aveva ospitati anche in chiesa: nel 1978, quando si cominciò a ripulire l’area della chiesa dalle rovine della guerra, furono trovate fra le macerie alcune reti da letto".
“Negli ultimi giorni di settembre”, mi dice Antenore Paselli, “anch’io lasciai con la mia famiglia, numerosa, la casa della Quercia e fummo ospitati da don Ubaldo, eravamo in tanti; alla sera si giocava a carte per stare allegri. Avevamo preso con noi anche le mucche; Lorenzini le mise nella sua stalla.
Il mattino del 29, quand’era ancora buio, cominciammo a vedere i fuochi delle case che bruciavano. Scappammo verso Caprara e ci nascondemmo nei boschi, io, mio padre e pochi altri”.
“Il 30 settembre i soldati del 105 regg. Flak, di stanza lungo la Venola, ritornarono a Sperticano, salirono a S. Martino verso mezzogiorno, fecero uscire dalle case del parroco e del contadino tutte le persone che ancora vi si trovavano, e compirono la strage che avevano risparmiato il giorno prima. Mi dice Peppino Lorenzini: “Da lontano vidi i tedeschi che ammassavano la gente contro la nostra casa, li uccisero tutti, poi da una massa di fascine ammucchiate sull’aia ne presero da buttare sopra i cadaveri e diedero fuoco. Quando andai ad aiutare altri a seppellire, raccogliemmo soltanto delle ossa.” (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 460-462)
La bella chiesa di Casaglia cominciava ad affollarsi, come in un giorno di festa; ma era la paura a spingere la gente, intere famiglie che avevano accesa nella preghiera la speranza di una salvezza che sembrava ormai compromessa.
A un tratto giunse anche don Ubaldo Marchioni, il parroco di S. Martino che aveva in cura la chiesa vacante di Casaglia: la sua comparsa fu di sollievo per tutti, la sua presenza fu considerata una garanzia di protezione per tutti.
Quel giorno, dedicato a S. Michele Arcangelo, egli [don Marchioni] doveva recarsi a celebrare la Messa nell’oratorio di Cerpiano, sacro all’Angelo Custode. Là era atteso, come dice la maestra orsolina Antonietta Benni.
Lasciata la famiglia a S. Martino nella canonica piena di sfollati e di rifugiati, don Ubaldo si diresse lestamente sulla dorsale per Caprara quando già si avvertiva qua e là il crepitare di armi, mentre procedeva cominciò ad avvistare l’incendio dei casolari, finché tutta la montagna, avvolta nella nebbia brumosa, sotto il cielo piovigginoso di quel pigro mattino, divenne un inferno.
Giunto a Casaglia si rese conto che il pericolo si faceva più grave e che la morsa si andava stringendo; non conveniva quindi proseguire oltre. D’altra parte la gente che si andava ammassando in chiesa non l’avrebbe lasciato andare.
Mentre altre persone continuavano ad affluire, Don Ubaldo suggerì ai pochi uomini presenti di andarsi a cercare un nascondiglio nei boschi, poi iniziò la recita del Rosario.
La preghiera durò a lungo, quasi un’ora dall’arrivo dei primi. Le buone donne rimaste accanto ai bambini rispondevano alle orazioni con qualche difficoltà, perché un nodo d’angoscia saliva alla gola e faceva velo alla loro voce.
Elena Ruggeri non riusciva a concentrarsi nella preghiera. Lucia Sabbioni lasciò la chiesa e passò in canonica a scrutare dalle finestre aperte sulla Val di Setta e vide i soldati salire dal Casoncello attraverso i campi: una decina, verso le 9, dice la Ruggeri. Alcuni rimasero di guardia all’esterno, due entrarono in chiesa, con atteggiamento spavaldo.
Nella confusione che ne seguì, o pochi istanti prima, alcuni riuscirono a fuggire attraverso la sagrestia [...].
[...] I soldati che erano entrati in chiesa si misero subito a discutere col prete, che si esprimeva stentatamente con qualche parola in tedesco e un po’ meglio in francese: un dialogo concitato, difficile, incomprensibile.
La gente, in preda al panico gridava, piangeva, pregava, mentre il buon sacerdote continuava a discutere con i soldati, a intercedere per la sua gente, a difenderla.
I tedeschi avevano fretta, troncarono l’affannosa conversazione e cominciarono a far uscire le persone.
In chiesa c’era una povera ragazza paralizzata, Vittoria Nanni, sfollata dalla casa America; non poteva camminare speditamente, girava appoggiata a una sedia; i soldati la uccisero lì. In campanile trovarono un uomo, Giovanni Betti, e gli fecero fare la stessa fine. Non scoprirono Giuseppe Ventura, sfollato da Vado, che si salvò nascosto in cima al campanile, sopra le campane. Si salvò anche Giuseppe Ansaloni, fratello del defunto parroco don Sebastiano, nascosto nella soffitta della canonica; sua moglie, Enrica Marescalchi, invece, venne uccisa col Betti in campanile.
Tutti gli altri furono spinti fuori: don Ubaldo, per ordine dei tedeschi ma senza la loro scorta, li stava guidando verso Dizzola, proprio come un pastore guida il suo gregge, avvilito e rassegnato: alcuni piangevano e gridavano disperatamente. Li udirono Attilio Ruggeri, nascosto fra Pudella e Casetta, Giuseppe Ventura, Adelmo Benini e quelli che erano su Monte Sole. “Il Parroco”, dice Cornelia Paselli, “si era incamminato con tutti noi in fila. Giunti vicino al cimitero, al bivio per Dizzola, dove ci volevano accompagnare, incontrammo un’altra squadra di tedeschi con un ufficiale, il quale ci fermò, poi diede l’ordine di abbattere il cancello del cimitero e mise un soldato di guardia con una mitragliatrice vicino a noi. Presero il parroco e lo portarono via. Aspettammo quasi mezz’ora. Pioveva”.
Mentre il gregge veniva rinchiuso nel recinto del cimitero come in un ovile, il pastore era ricondotto in chiesa. [...] Nessuno ha assistito a quell’epilogo, nessuno ha potuto raccontarlo.
Dalla posizione in cui il suo corpo fu rinvenuto, disteso sulla predella dell’altare, si può presumere che don Marchioni sia stato ucciso proprio nel posto giusto e privilegiato che la liturgia assegna al sacerdote nella celebrazione dell’Eucarestia, cioè davanti all’altare, dove egli svolge il ministero della parola, dove offre il santo sacrificio, dove compie i divini misteri. [...]
[...] Come Zaccaria, ucciso tra il santuario e l’altare, don Ubaldo suggellò nel sangue la sua fedeltà al gregge affidato, imitando il buon pastore che dà la vita per le pecore.
Considerando la situazione di pericolo in cui versava, qualcuno, anche il suo vescovo, anche il sottoscritto, gli aveva suggerito di abbandonare la parrocchia. Ma lui non era il mercenario che abbandona le pecore quando si avvicina la minaccia. [...]
[...] I fratelli Ferruccio e Ivo Teglia, due dei suoi ragazzi di Monzuno, partigiani, mentre la sera del 29 settembre abbandonavano la montagna maledetta, furono i primi a scorgere don Marchioni disteso davanti all’altare di Casaglia, con un piede bruciacchiato dal fuoco che i soldati avevano appiccato alla sua veste talare. Poi lo vide anche Leda Laffi nella sua fuga liberatrice. Nel 1980, quando ripulimmo la chiesa dalle macerie, trovammo i segni di quel fuoco sacrilego: la predella dell’altare, di legno, carbonizzata e il gradino, di marmo, annerito dal fumo. [...]
[...] Durante quei lavori vennero alla luce una lastra di rame che ricopriva la porticina del tabernacolo e la pisside che si trovava all’interno, schiacciata e contorta, che raccolsi con grande emozione. [...]
[...] ma oggi, da me riparata e ripulita, ha preso il suo servizio liturgico nella cappella della comunità di don Dossetti, con i segni e le impronte evidenti di una tribolazione che il parroco e i fedeli soffrirono cruentemente nelle proprie carni. [...] (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 431-435)
[...] Cornelia Paselli: “Aspettammo lì vicino al cimitero quasi mezz’ora. Pioveva. Arrivò un altro soldato, parlò in tedesco e ci disse: “Raus, raus!”. Io feci conto di non capire e chiesi: “Che cosa?”. E lui: “Avanti, avanti!”. Ci spinsero dentro al cimitero: un tedesco era vicino a noi, un altro sul cancello. Ci misero dentro, tutti ammassati vicino alla cappella. Eravamo quasi un centinaio di persone: tutti piangevano, urlavano disperati, soprattutto i bambini. Una signora voleva fuggire e disse: “Lasciatemi andare da mia figlia”. Tentò di varcare il cancello e fu uccisa subito.
Allora buttarono una bomba a mano, cominciando il massacro. Io mi trovavo all’esterno del gruppo e volevo spostarmi nel centro, per potermi salvare mettendomi sotto gli altri; lo spostamento d’aria provocato dalla bomba a mano mi scaraventò proprio al centro di tutte quelle persone.
Poi la mitragliatrice che avevano già caricato si mese a sparare nel gruppo e cominciarono a cadere i morti.
Io rimasi con la testa in giù e le gambe in alto, sotto i cadaveri, e udivo ancora urla di dolore e di disperazione. A un tratto sentii un gran caldo: era sangue di feriti che mi scorreva addosso; mi spaventai tanto che svenni. Rimasi così per molto tempo”. [...]
[...] Lucia Sabbioni: “Mia madre era lì sulla sinistra di chi entra, nel cimitero, in prima fila, io dietro di lei. Due tedeschi entrarono e si misero davanti a mia madre, uno appoggiò la mitraglia a terra su un treppiedi, l’altro puntò il mitra. Allora mi spostai indietro e con la sorellina Bruna in braccio andai a collocarmi a ridosso della chiesina. Dopo qualche minuto entrarono altre tre o quattro soldati, con facce stravolte, e si piazzarono a destra dell’entrata. I primi cominciarono a sparare, gli ultimi staccarono dalle cinture le bombe a mano e le gettavano sul mucchio: colpi, scoppi, fumo, lamenti, grida, brandelli di carne all’aria, puzzo di sangue.
Una pallottola di fucile mi colpì alla coscia sinistra, schegge di bombe a mano mi si conficcarono nelle ginocchia e nelle braccia. La moglie del calzolaio di Gardelletta, Cleofe Betti, un donnone gigantesco, mi cadde addosso e mi salvò. Io però non riuscii a salvare la sorellina che tenevo in braccio, colpita sulla faccia e nelle braccine; l’altra sorellina, Irene, rimasta vicino alla mamma, era sventrata, irriconoscibile; la mamma aveva il cranio fracassato. [...] (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 436-437)
L’oratorio, con eleganti volte e lesene, misurava 7 metri per 3.
Dietro l’altare con due scaffalature e predella in pietra era l’ancona raffigurante l’arcangelo Raffaele. Ai lati due poggiampolla di pietra; tutt’intorno la via Crucis e sulla soglia l’acquasantiera.
A Cerpiano quel tragico venerdì 29 settembre Don Marchioni era atteso per celebrare la Santa Messa nell’Oratorio dedicato all’Angelo Custode.
Ma la paura più folle aveva invaso tutti, poiché i tedeschi stavano per arrivare.
Qualcuno aveva suggerito di nascondersi nel rifugio del bosco, anzi il grosso della gente vi era già; ma ecco che si dice essere imprudente lasciare una casa così grande abbandonata: “Ci verranno a cercare, ci crederanno tutti partigiani nascosti e ci uccideranno”.
Qualcuno resta, ma una cinquantina ritorna indietro seguendo il consiglio di chi ha più autorità, e rifugiandosi nella cantina del “Palazzo” dove abitualmente ci si riparava dalle cannonate frequenti.
Arrivano i tedeschi.
Fanno salire queste 49 persone dalla cantina alla cappella attigua al “Palazzo”: sono 20 bambini, due vecchi quasi invalidi, 27 donne fra le quali tre maestre.
Chiudono accuratamente le porte e poi …. comincia il getto fatale della bomba a mano.
Sono le 9 del mattino e 30 vittime sono immolate.
Feriti che si lamentavano, invocando disperatamente aiuto; bimbi che piangevano, mamme che tentavano di proteggere le creature superstiti.
Una donna, Amelia Tossani, voleva fuggire ad ogni costo: aperta la porticina laterale, è stata freddata sulla porta da un tedesco di guardia, sicché il suo corpo è rimasto metà dentro e metà fuori e la notte i maiali randagi hanno rosicchiato il capo, fra l’orrore di chi, impotente, assisteva a tale spettacolo.
Il povero vecchio Pietro Oleandri ha sentito una sua mucca muggire: non ne può più di stare in mezzo ai morti, fra i quali c’è la buona sposa del suo unico figlio prigioniero in Germania e due dei nipotini amatissimi. Prende per mano il terzo nipote superstite di cinque anni e sta per uscire: una raffica …. un uomo e un bimbo sono all’eternità!
Una signora di Bologna, Nina Frabboni Fabris, da poco sfollata lassù, è rimasta ferita gravemente e si lamenta per ore ed ore con alte grida. Un tedesco di guardia, senza cuore, seccato da questo urlare, entra nella cappellina e con un colpo di fucile uccide la disgraziata, fra il terrore dei presenti superstiti.
Intanto nell’attigua casa, i carnefici gozzovigliano, suonano l’armonium come fosse festa, mangiano ciò che trovano (per esempio centinaia di uova in calce), spargono a terra tutto ciò che non possono mangiare: grano, fagioli, cospargendoli di porcherie. Carte, libri e documenti… tutto buttato all’aria con la frenesia dei vandali.
Ma le povere vittime della Chiesina non le abbandonano un minuto: hanno aperto un buco nella porta e di là sghignazzano sinistramente.
Dopo 28 ore di questa terribile agonia, i 16 superstiti sentono la loro condanna: tra venti minuti tutti “kaput”, i fucili vengono caricati rumorosamente per poi scaricarsi poco dopo su quei poveretti: altre 13 vittime!
E un cartello di legno è posto alla porta di quella insolita camera mortuaria: “questa è la sorte toccata ai favoreggiatori dei partigiani”.
ltre alla maestra Antonietta Benni c’erano vivi anche due bimbi: Piretti Fernando di 8 anni e Rossi Paola di 6 anni. Questa, rizzandosi a sedere e contemplando il terrificante spettacolo, dice pensando di essere sola: “tutti morti! la mia mamma! la mia zia! la cara maestra Anita Serra! la mia nonna Rosina! la mia nonna Giovanna! il mio fratellino! Tutti morti”.
Il bimbo Fernando: “Paola sei viva? Scappiamo? Non ci sono più i tedeschi”. Ma la bimba ha il corpo esanime della sua mamma sulle sue gambine e non può muoversi. Il bimbo glielo toglie e poiché capisce che la Paola non può camminare, se la carica sulle spalle e si affaccia alla porta; i tedeschi sono sempre in agguato e i due bambini, rabbrividendo, tornano indietro.
La buona signorina Antonietta li nasconde sotto una coperta, raccomandando loro di fare i morti, e tutti e tre aspettano ancora. Buon per loro! Vengono di nuovo i carnefici per togliere ai cadaveri i gioielli, borsette, danaro e valigie. Anche alla povera Antonietta Benni tolgono dal braccio la borsetta dove ha quel poco che possiede: la mano è gelida per la ferita al gomito e certamente per il terrore: la credono morta e non se ne occupano più. I bambini per fortuna, non li vedono neppure.
Dopo lunghe ore di attesa, finalmente un passo d’uomo. Fa prima rabbrividire e poi aprire il cuore alla speranza ai tre superstiti: è uno di Vado: Franco Lamberti che entra esclamando: “Che macello! Assassini!”; vede la sua cara mamma tra i morti e piange. La signorina Antonietta trova la forza di domandare: “chi siete?” E l’uomo si spaventa “c’è ancora un vivo in mezzo a tanti morti?”
Aiuta la ferita a rialzarsi, la conduce con i due bambini nel rifugio del bosco….. (Antonietta Benni, RELAZIONE AL CARDINALE ARCIVESCOVO DI BOLOGNA, 1945)
[...] Prima che arrivassero i soldati, gli altri che si trovavano nelle due case si raccolsero ammucchiati dentro il rifugio, dove sr. Maria confortava tutti invitandoli a recitare il Rosario. Quando l’ebbero finito irruppero i tedeschi e li fecero uscire dal rifugio radunandoli nel cortile davanti alla stalla di S. Giovanni di Sotto, nell’area destinata a raccogliere il letame, che era già stato sparso nei campi. A quelli del rifugio aggiunsero coloro che provenivano dal Casoncello, e anche altri che erano di passaggio, come i Gherardi, e anche Albertini che veniva da Sperticano. Erano in tutto 50 persone, quasi tutte donne, vecchi e bambini.
Intanto due soldati, facendo dei segni con la mano, indicavano alla Malvina [una signora che abitava in quel luogo] di allontanarsi, ma lei non capiva che volevano risparmiarla; i militari furono costretti a fingere di ucciderla, minacciandola coi fucili puntati contro di lei; allora si allontanò dalla casa, ponendosi così in salvo.
Mentre scendeva verso il Casoncello, si fermò per nascondersi nella vigna; allora le giunsero all’orecchio colpi di mitraglia e l’urlo straziante, quasi selvaggio, di spavento e di dolore, dei suoi e degli altri che venivano uccisi.
[...] Ma ormai dalle case di S. Giovanni non giungeva più alcun rumore: il silenzio regnava sovrano nell’imminenza della notte, il silenzio della morte. Nessuno poté assistere alla strage, nessuno sopravvisse da poter raccontare quei terribili istanti.
Raccontarono solo quelli che videro i morti, qualche giorno dopo, e li seppellirono.
L’aia davanti alla stalla era un cimitero di morti, un groviglio di cadaveri, un ammasso di carne maciullata, e sotto e tutt’attorno una vasta pozza rossastra formata dal sangue diluito dalla pioggia. (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 446-448)
30 settembre
Dopo aver seminato strage a S. Martino, i soldati del 105° reggim. Flak raggiunsero il borgo di Caprara, oppresso da un cupo silenzio di morte, passarono il valico fra Monte Caprara e Monte Sole, costeggiarono Monte Abelle e scesero nel versante del Reno per compiere la tragedia di Sperticano.
Udirono il rumore delle raffiche, i gemiti degli agonizzanti; udirono anche una frase pronunciata in italiano da uno dei carnefici: “Fa’ presto, che vogliamo andar via”. Poi, silenzio.
I due tornarono a casa; come arrivarono sull’aia, un atroce spettacolo si presentò al loro sguardo: in un lago di sangue, gli uni addosso agli altri, giacevano i loro cari; alcuni si muovevano ancora negli spasmi dell’agonia.
Colulla di Sopra. “I soldati arrivarono, dissero a quelli di casa che bisognava sfollare (gli uccisi furono trovati, infatti, vestiti degli abiti da festa, con ombrelli e fagotti preparati evidentemente in previsione di un viaggio), poi massacrati tutti”. Pietro Zebri, che si salvò con altri tre uomini, tornò a casa dopo due ore e li trovò tutti cadaveri: 9 persone.
Colulla di Sotto. Una ventina di persone occupavano quel casolare. Si salvarono Vittorio e Ferruccio Laffi. Furono trovate uccise le altre 18, fra cui 9 bambini; il più piccolo, Giovanni Laffi, aveva appena 28 giorni, e fu uno degli ultimi bimbi battezzati da don Giovanni Fornasini.
Roncadelli. Scendendo da Abelle, attraverso le Colulle, i soldati erano ormai giunti in fondo alla valle. Passando da Tagliadazza raccolsero le persone che vi trovarono e le aggiunsero a quelli di Roncadelli, la casa successiva, in tutto 22, e le stiparono in un unico locale. La gente rinchiusa cominciò allora ad urlare di terrore; fu fatta uscire nell’aia e sospinta per poche decine di metri fino a un piccolo rio; poi, colpiti alla spalle, tutti cercarono scampo nella fuga: 16 rimasero uccisi; 6 si salvarono: Nino Amici, Maria Negri e Maria Tomesani ferite, Sereno Zagnoni, di otto anni, e la sorella Evelina di 17. [...]
Sperticano. La marcia della morte, prima di arrestarsi, finalmente, a Sperticano, raggiunse una capanna sotto la chiesa dove si trovavano casualmente quattro persone: due donne, un ragazzo e un bimbo; le due donne stavano portando da mangiare ai loro mariti nascosti nei boschi. Furono uccisi tutti e quattro. (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 463-466)
“Caprara, a ridosso del monte omonimo, era un antico borgo fortificato di grande importanza, posto sulla via di comunicazione fra Panico e l’alto Appennino, dotato di un castello con chiesa. […]Aveva bottega (sali e tabacchi) e osteria, e fu anche capoluogo di comune, e quando la sede fu trasferita a Marzabotto, il comune conservò per qualche tempo il nome di Caprara. Questo nome era aggiunto alle due chiese di S. Martino e di Casaglia, che si trovavano ai suoi lati. […]
Perduta l’originale importanza, al tempo della guerra a Caprara ci stavano tredici famiglie, suddivise fra Caprara di Sopra e Caprara di Sotto. Sopra: due contadini e sei pigionanti. […] Sotto: due contadini e tre pigionanti.”
[…] (I tedeschi) vi giunsero il 29 settembre poco dopo mezzogiorno, provenienti a gruppi da due direzioni opposte: dalla valle del Reno quelli del 105 reggim. Flak; che incontrarono nel bosco la famiglia Tondi di Castellino e la sterminarono (8 persone); dalla valle del Setta una compagnia del 16° battaglione di Reder. Radunate dalle case e da un rifugio e rinchiuse in cucina, 35 persone furono uccise col lancio di bombe a mano; abitavano a Caprara o vi erano sfollate da fuori, come la famiglia Astrali e Iubini provenienti da Villa d’Ignano. […] (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 451-452)
Alla Creda di Salvaro, in un gran casamento posto a mezza costa fra la chiesa e il monte, un po’ defilato a sinistra, vivevano due famiglie di contadini, quella di Augusto Cardi, dal 1929, e quella di Giuseppe Righi, e in più c’erano 5 o 6 famiglie di inquilini. Ma in quei giorni di fine settembre c’erano molte altre persone, alloggiate nella casa, nella teggia, nella scuola, perché c’era anche una scuola elementare, e in una vecchia fornace per mattoni abbandonata, provenienti da Pioppe, da Sibano, da Salvaro. [...]
[...] Ascoltiamo il racconto che mi ha fatto Mario Cardi, uno dei sopravvissuti:[...] E le mitragliatrici cominciarono a sparare contro la gente ammassata sotto il portico. Qualcuno tentava di scappare di qua o di là, o di ripararsi sotto un altro carro che era rimasto nel portico, ma non c’era via di scampo. Io ero vicino a una porta che dal portico dava nella stalla, ma il catenaccio era chiuso dall’interno; con altri provammo a spingere, riuscimmo ad aprirla e ad entrare. Ma i soldati vennero là dentro e continuarono a sparare; poi alle raffiche di mitra aggiunsero il lancio di bombe a mano che scoppiavano sopra i feriti e trasmettevano le fiamme al soffitto di legno: il fieno prese fuoco e cominciò a cadere nella stalla. Là dentro avevo mia madre e due sorelle [...].
70 persone furono massacrate. Era il 29 settembre 1944. Don Elia Comini e padre Cappelli che si trovavano nella canonica di Salvaro, avvertiti da un uomo scampato al massacro, benché tutti glielo avessero sconsigliato, prontamente partirono per la Creda per portare aiuto ai feriti e amministrare loro i sacramenti. Sulla strada, però, furono arrestati dai tedeschi, poi utilizzati per il trasporto di armi e, infine, rinchiusi in una casa vicino alla chiesa di Pioppe.
Dopo 3 giorni, don Elia e padre Martino, insieme ad altre persone, furono barbaramente uccise.
Fra gli uomini che per il terzo giorno sono vigilati nella stanza della scuderia, pur confortati dalle preghiere e dalle parole dei due religiosi [d. Comini e p. Capelli], la speranza si va spegnendo. A mezzogiorno i soldati distribuiscono un po’ di cibo. Nel tardo pomeriggio tolgono loro i portafogli, i documenti, gli orologi e ogni oggetto di qualche valore; è un rito funestamente premonitore: è finita. Sull’imbrunire li fanno uscire. Nel gruppo manca Aldo Cumani, già deceduto in quella casa per le ferite riportate al momento della cattura. I restanti 46 vengono accompagnati alla canapiera e fermati di fronte alla botte; devono togliersi le scarpe e qualche indumento, poi a gruppi vengono sistemati sul bordo della botte e falciati dalle mitragliatrici: 40 cadono nel fango della botte lasciandovi la vita, 3 riescono ad uscirne vivi ma poi moriranno per le ferite, 3 si salvano.
Don Comini aveva intonato ad alta voce le litanie della Madonna e continuava a pregare, finché non cadde colpito, ma prima di accasciarsi aveva dato l’assoluzione a tutti e aveva gridato più volte, a gran voce: “Pietà! pietà!”. [...]
Aldo Ansaloni poté scorgere padre Capelli che, in uno sforzo supremo, si alzava dalla melma della botte e ritto sopra i cadaveri, premendosi con una mano il ventre orribilmente squarciato, tracciava con l’altra ampi segni di croce sui feriti e sui morti; finché non ricadde supino con le braccia aperte, in croce. (Dario Zanini, MARZABOTTO E DINTORNI 1944, ed. Ponte Nuovo editrice, Bologna, pagg. 358-361. 477-479