A partire dal III sec. d.C., secondo quanto scrive Ippolito Romano, le caratteristiche del sacramento si definiscono.
Si inizia ad utilizzare il termine sacerdote, riservato, però, solo al vescovo.
Con l'ordinazione, il vescovo è consacrato sommo sacerdote della sua Chiesa locale e successore degli Apostoli. Ciò avviene grazie all'imposizione delle mani da parte di un altro vescovo.
Sul prete, invece, impongono le mani il vescovo e i presbiteri presenti, e il consacrato riceve un potere subordinato e associato a quello episcopale.
Col passare del tempo, a seguito della diffusione del Cristianesimo, il prete esercita il proprio ministero soprattutto nelle campagne, lontano dalla città e dalla sede del vescovo. Il diacono, invece, rimane in città, a disposizione del vescovo.
Nel III sec. d.C., hanno inizio, in Africa, i primi incontri fra vescovi, preoccupati di contrastare il diffondersi delle eresie: nasce, così, l'idea di Collegio episcopale.
È in questo periodo che nella consacrazione episcopale al vescovo celebrante si associano altri due vescovi.
Nel IV sec. d.C.. l'imperatore Costantino riconosce ai vescovi molti diritti particolari.
Ai nuovi vescovi vengono consegnate anche le Insegne del potere civile, come il pallio e la stola.
Nel periodo Carolingio c'è, invece, un ritorno alla concezione veterotestamentaria del sacerdozio: esempi da imitare, per i sacerdoti, sono le figure di Aronne e di Mosè.
È in questo tempo che inizia la consuetudine di ungere le mani dei consacrati col crisma, per sottolineare che il sacerdote è una persona sacra, che non può compiere altre attività ritenute incompatibili con il suo ministero.
Poco alla volta, il diaconato come ordine gerarchico a sé stante scompare, e resta come tappa verso il sacerdozio.
Il sacerdozio appare, ora, esclusivamente legato alla celebrazione eucaristica e aumenta il distacco del sacerdote dalla Comunità. Tale frattura è dovuta anche all'uso del latino, lingua non più usata nel parlare corrente, ma ancora utilizzata durante i riti liturgici.
Durante il periodo feudale, all'unzione delle mani, viene aggiunta la consegna degli strumenti per l'esercizio del ministero: il calice e la patena. Si lascia, così, in ombra il servizio di annuncio della Parola di Dio.
La Riforma protestante reagisce contro alcuni aspetti negativi del sacerdozio, come l'eccessivo proliferare delle Messe private e la separazione netta che esiste fra ministri ordinati e popolo di Dio.
I Protestanti svuotano, però, di ogni significato sacramentale il sacerdozio ministeriale. Ciò che conta sono il ministero dell'evangelizzazione e il sacerdozio comune dei fedeli: non c'è più il sacerdote, ma il pastore.
Il Concilio di Trento, al contrario, ribadisce con energia la validità del sacramento dell'Ordine, riconferma il suo legame con la celebrazione del sacrificio eucaristico e definisce la dottrina del carattere, dell'assoluzione dai peccati e della gerarchia.
Prima del Concilio Vaticano II, la riflessione della Chiesa sulla liturgia rivaluta il sacerdozio comune dei fedeli e stimola l'apertura della Comunità verso il mondo.
Si riconosce sempre più valore alla Chiesa locale e alla presenza dello Spirito Santo nella guida della Comunità.
Il Concilio, poi, riprende questi temi e li approfondisce ulteriormente: nella costituzione Lumen gentium si parla dei tre gradi gerarchici del sacerdozio; il decreto Presbyterorum ordinis tratta del ministero sacerdotale nel suo complesso; nel decreto Optatam totius sono indicate le direttive riguardo alla preparazione dei sacerdoti.